mercoledì 10 febbraio 2010

Italia dall'Estero - Provenzano consegnò Riina in cambio della sua impunità

Pubblico un articolo de El País del 2 febbraio 2010 (traduzione da Italia dall'Estero):

Provenzano consegnò Riina in cambio della sua impunità

Continua la testimonianza del figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo. “Dietro agli attentati di Falcone e Borsellino ci fu un ‘grande architetto’”

Continua nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone di Palermo l’esplosiva deposizione di Massimo Ciancimino, figlio minore ed ex segretario personale del defunto sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Dopo le otto ore di interrogatorio di lunedì, il testimone, 47 anni, condannato in primo grado per riciclaggio di una parte dell’eredità di suo padre, ha proseguito martedì raccontando fin nei minimi dettagli la storia della mafia siciliana degli ultimi 25 anni.

Il suo racconto ricorda Quei bravi ragazzi, il film di Martin Scorsese. Solo che si tratta della vita reale.

Il nocciolo delle rivelazioni di Ciancimino, la cui testimonianza viene considerata dai giudici di massima credibilità per la sua prossimità ai personaggi e ai fatti, è la trattativa aperta tra parte dello Stato italiano e Cosa Nostra nel maggio del 1992, dopo l’assassinio del giudice Giovanni Falcone.

Il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, anticipando il crollo della Democrazia Cristiana, ordinò di eliminare i politici complici come Salvo Lima e i giudici Falcone e Borsellino, che avevano condannato centinaia di mafiosi nel maxiprocesso celebrato nella stessa sala dove ora Ciancimino rilascia le sue deposizioni.

Vito Ciancimino condusse latrattativa fino a che non fu arrestato e incarcerato nel dicembre del 1992, come ha ripetuto martedì il teste. Furono mesi drammatici, che misero la parola fine alla Prima Repubblica e a tutti i partiti tradizionali. E il sindaco palermitano giocò un ruolo cruciale nell’arresto di Riina. “Convinto che Riina fosse diventato matto, mio padre collaborò alla sua cattura convincendo Bernardo Provenzano a consegnarlo. Non fu facile, perché Provenzano non amava tradire”, ha affermato Ciancimino.

Suo padre negoziò l’arresto del capo dei capi in varie riunioni svoltesi tra l’agosto e il novembre del 1992, tanto con Provenzano quanto con i carabineri (il colonnello Mori e il capitano De Donno, imputati di favoreggiamento alla mafia in questo stesso processo) e con un non identificato agente dei servizi segreti.

“Chiedemmo ai carabinieri le mappe di Palermo con le linee telefoniche, del gas e dell’energia elettrica, mio padre le fece arrivare in due tubi gialli a Provenzano e costui segnò il luogo dove si nascondeva Riina”, ricorda Ciancimino Junior. “In cambio del suo contributo per la cattura, Provenzano ottenne una forma di impunità. Mio padre spiegò ai carabinieri che l’unica persona che poteva segnare una nuova direzione alla strategia di Cosa Nostra e porre fine agli attentati era Provenzano, e perciò doveva rimanere in libertà”.

Dopo la cattura di Riina, Provenzano rimase libero fino al 2006. La ragione, afferma il figlio dell’ex sindaco democristiano, è che la trattativa tra Cosa Nostra e lo Stato è continuata nel tempo, ma con un nuovo interlocutore: il cofondatore di Forza Italia, braccio destro di Silvio Berlusconi e senatore del Popolo della Libertà, Marcello Dell’Utri.

“Dopo l’arresto di Riina e quello di mio padre, Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa con Cosa Nostra. Dell’Utri e Provenzano mantennnero relazioni dirette”, ha affermato. “Me lo disse mio padre, al quale lo confermò il capo della mafia”.

Secondo un pizzino letto martedì in tribunale, Provenzano trattò con Dell’Utri la possibilità del condono della pena all’ex sindaco quando questo era detenuto nel carcere di Rebibbia e si ammalò.

Un altro punto dell’accordo mafia-Stato, secondo Ciancimino, stabiliva che il nascondiglio di Riina non fosse mai perquisito dopo il suo arresto. La ragione era che Riina diceva spesso che, se lo avessero arrestato, la polizia avrebbe trovato nella sua casa documenti sufficienti per fare “affondare l’Italia”.

“Mio padre si sentiva indirettamente responsabile dell’attentato di Via D’Amelio, nel quale morirono (luglio del 1992) Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta”, ha aggiunto Ciancimino. Secondo il suo parere, Riina fu spinto a continuare l’ondata di attentati da qualcuno che è sempre rimasto nell’ombra. “C’era una persona che faceva pressioni su Riina, dicendogli di continuare con le stragi. Provenzano e mio padre erano contrari a questo modo di agire”. I magistrati hanno letto in aula un altro pizzino inviato da Provenzano a Ciancimino, che fa riferimento a Riina: “il nostro amico è pressato oltre misura da un grande architetto, si legge nel papello.

(Articolo originale di Miguel Mora)

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