venerdì 5 dicembre 2008

Italia dall'Estero - L’Italia non riesce a coltivare la conoscenza

Pubblico un articolo di Nature del 1 ottobre 2008 (traduzione da Italia dall'Estero):

L’Italia non riesce a coltivare la conoscenza

EDITORIALE. Il governo di Silvio Berlusconi sembra lanciato nella sua corsa a riformare il problematico sistema educativo italiano, attraverso tagli drastici ai finanziamenti alle scuole, alle università e alla ricerca scientifica, provocando così una tardiva pioggia di proteste.

In un periodo in cui l’economia italiana, perennemente in difficoltà, è ulteriormente minacciata dalla recessione globale, il governo ha bersagliato il sistema educativo con tagli indiscriminati, con la scusa di migliorarne l’efficienza. Ma davvero l’istruzione e la ricerca devono essere il bersaglio di tutti questi tagli? Quali saranno i benefici per un sistema universitario che già rende poco e in che modo queste misure sosterranno il cammino proiettato verso un’economia basata sulla conoscenza? Al momento, le direttive del governo non forniscono motivazioni convincenti per rispondere a queste domande.

Subito dopo la ri-elezione di Berlusconi ad aprile di quest’anno, Ministro delle finanze Giulio Tremonti ha emanato un decreto che delineava i tagli alle università e alla ricerca. Nonostante le proteste degli ultimi tempi diffuse in tutto il paese e nonostante il fatto che Maria Stella Gelmini, Ministro dell’istruzione incaricata di finalizzare il decreto, non abbia consultato l’opposizione politica o i rappresentanti delle istituzioni colpite, il decreto è diventato legge ad ottobre. Nei prossimi cinque anni 1.5 miliardi di euro verranno tagliati dalle casse dell’università, con una concomitante riduzione dell’assunzione e del ricambio di personale (solo uno su cinque posti accademici vacanti verranno riempiti). Inoltre, migliaia di ricercatori precari nelle università e in altri centri di ricerca pubblici rischiano di perdere il lavoro, nonostante a molti fossero stati promessi dei posti definitivi. La legge in questo modo mira a ridurre il supporto dello Stato alle università pubbliche permettendo loro di convertirsi in istituzioni private finanziate con fondi alternativi.

Le università e la ricerca italiane difficilmente trarranno beneficio da tagli indiscriminati. Al momento la migliore università nell’ultima classifica mondiale del Times, è quella di Bologna e si trova alla 192esima posizione, dopo le università di Mumbai e di Mosca (un’altra classifica dell’università Jiao Tong, l’Academic Ranking of World Universities, posiziona La Sapienza di Roma al 100esimo posto). I ricercatori, che subiscono una mancanza cronica di finanziamenti e il nepotismo che danneggia l’assegnazione delle rare posizioni a tempo indeterminato, emigrano sempre piú all’estero. “I tagli potrebbero offrire la possibilità di ridurre lo spreco di soldi che affligge il nostro sistema universitario” commenta Paolo Di Fiore, direttore scientifico del IFOM (Istituto FIRC di Oncologia Molecolare di Milano), uno dei pochi centri di eccellenza del Paese, finanziato da privati. “Tuttavia” continua Di Fiore “il problema è che i tagli sono stati annunciati senza un piano concreto volto ad introdurre nel sistema degli standard morali più elevati e orientati al merito: il risultato più probabile è che saranno indiscriminati”

Per rendere più convincenti questi tagli, il governo ha fornito alla comunità accademica una descrizione dettagliata che prende in prende in considerazione la situazione delle singole università. Sarà importantissimo assicurare che la distribuzione delle restanti risorse sia effettuata attraverso un sistema di valutazione più trasparente, che premi la competenza e la produttività. Per esempio, in Francia il governo non solo ha innalzato i finanziamenti all’università, ma ha anche recentemente revisionato i meccanismi di distribuzione e di gestione delle risorse pubbliche per la ricerca in modo da dare alle università maggiore autonomia e, allo stesso tempo, di controllare la loro efficienza più da vicino (cfr. l’editoriale di agosto). Al contrario, l’iniziativa di privatizzare le università italiane sembra sottolineare una mancanza di volontà di investire in modo adeguato nel sistema accademico pubblico. “Il sostegno con risorse provenienti dal privato può essere un beneficio, ma non dovrebbe mai essere volto a sostituire del tutto i finanziamenti privati, che mirano a garantire la libertà intellettuale e il supporto incondizionato anche alla scienza più di base” dice Di Fiore.

L’Italia è già lontana dal seguire le direttive dalla Strategia di Lisbona, che prevedono l’investimento del 3% del prodotto interno lordo (PIL) in ricerca e sviluppo. Con un investimento pari al 1,5% l’Italia è molto piú indietro della Svezia, che investe il 3.9% (in effetti la legge finanziaria svedese del 2009 contiene il piú considerevole investimento in ricerca fin’ora mai fatto), della Germania, che investe il 2.7%, della Francia (il 2.1%) e della Gran Bretagna (l’1.8%). La Spagna, un tempo paragonabile all’Italia in termini di investimento pubblico nella ricerca scientifica, negli ultimi anni ha adottato efficaci iniziative che adesso la posizionano fra le aree di ricerca europee di maggior successo. I progetti spagnoli del “Piano Nazionale per la Ricerca Scientifica, l’Innovazione Tecnologica e la Progettazione” portano ad un aumento gli investimenti in ricerca e sviluppo dall’1.1% al 2.2% del PIL tra il 2008 e il 2011. Inoltre, 10 anni fa, il governo spagnolo costituì e finanziò il CNIO (Centro Nazionale di Ricerche Oncologiche) di Madrid, nel quale i ricercatori non sono impiegati statali, ma vengono assunti sulla base del merito e delle competenze, e dove la produttività è controllata da vicino. Altre istituzioni di successo con finanziamenti paragonabili sono il CNIC (Centro Nazionale di Ricerche Cardiovascolari) sempre a Madrid, il CRG (Centro per la Regolazione Genomica) e l’IRB (Istituto di Ricerca in Biomedicina) a Barcellona.

Il successo della ricerca, in una paese, si fonda su un ragionevole equilibrio tra ricercatori fissi e precari, che sono incoraggiati ad aumentare le loro competenze. Per anni in Italia questo equilibrio è stato minato dal cattivo uso che si è fatto dei rari posti fissi, che ha portato ad un significativo esodo all’estero di ricercatori. Coloro che restano hanno molte difficoltà, come indicato dai finanziamenti iniziali di quest’anno da parte del Consiglio di Ricerca Europeo (ERC). Nonostante l’Italia abbia ricevuto finanziamenti per 26 progetti (la Gran Bretagna ne ha avuti 58, la Germania 33, la Francia 39 e la Spagna 24) è stato il Paese con il minore tasso di successo, sebbene avesse il maggiore numero di domande (circa 17% del totale). Il volume di domande all’ERC è stato a ragione definito come “il fattore disperazione”, indicativo della mancanza di fondi nei paesi di origine dei ricercatori.

Studenti e ricercatori in Italia hanno mobilitato una campagna massiccia contro i tagli ai finanziamenti e molte università sono state paralizzate dagli scioperi studenteschi, nonostante il governo abbia minacciato di far intervenire la polizia. Questi sforzi sembrano aver avuto qualche effetto: all’inizio di novembre, la Gelmini ha annunciato che le misure riguardanti i fondi alle università e il ricambio del personale, potrebbero essere mitigate ritardando l’attuazione dei tagli fino al 2010 e con una revisione della legge dopo consultazioni con l’opposizione parlamentare, gli accademici e gli studenti. Al momento in cui questo articolo viene stampato, non è chiaro fino a che punto la legge verrà modificata. Eppure, rimane il fatto che, al contrario della tendenza nella maggior parte delle altre nazioni industrializzate, il governo italiano non ha compreso che senza investimenti significativi a favore di una società basata sulla conoscenza, l’innovazione scientifica è destinata a stagnare e, a lungo termine, il paese dovrà inevitabilmente affrontare problemi sociali e economici.

(Articolo originale)

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